domenica 8 maggio 2011

Piante sui muri - la parietaria

Siamo abituati ad immaginare i fiori e la vegetazione in generale nei prati, nell'ombra di una foresta o fra le rocce di una montagna. Ma certe piante si sono ben adattate anche a vivere negli ambienti abitati dall'uomo, sfruttando nicchie non naturali in senso stretto come i fianchi delle strade o altri luoghi antropizzati.
Uno di questi ambienti "artificiali" è costituito dai muretti in pietra. Nelle strade di Ronchi ci sono molti vecchi muri in pietra letteralmente ricoperti di vegetazione: a Selz, vicino alla piazzetta dell'Olmo; o in via delle Bortolozze, nel viale Serenissima e ancora in molti altri luoghi.
La pianta in assoluto più adattabile a questo tipo di habitat è la parietaria (Parietaria officinalis).


 Il nome parietaria deriva proprio da paries, che in latino significa "vecchia parete": la parietaria li predilige in quanto necessita di affondare le radici in ambienti particolarmene ricchi di sali minerali.
"Officinalis" invece ci indica che la parietaria veniva usata come pianta curativa: contiene infatti molti nitrati e ciò le rende degli ottimi diuretici.
La parietaria è della famiglia delle ortiche, ma è sprovvista dei peli/aghi urticanti della sua cugina famosa!
Come nelle altre piante della famiglia delle Urticacee, all'interno dei tessuti della parietaria ci sono minuscole concrezioni calcaree, che fanno sì che strofinare la parietaria contro un vetro possa renderlo particolarmente pulito (devo dire che non abbiamo fatto la prova!); per questo la parietaria veniva chiamata anche "Vetriola".


La parietaria però è famosa principamente per altri fattori, molto meno piacevoli! Innanzitutto è  famigerata per la sua invadenza nello stabilirsi praticamente ovunque! E' infatti una pianta a dir poco infestante, e una volta che infila le radici nei vostri muri sarà praticamente impossibile estirparla! Per quanto la si strappi alla radice, la parietaria torna sempre a menar fuori nuovi germogli con una rapidità ed insistenza davvero snervanti! Citando le parole dell'insigne naturalista e biologo dott. Marco Paparot, "La parietaria xè la pantegana del Regno vegetale!"

Persino una lamiera del sottopassaggio pedonale della stazione di Trieste può far da casa alla tenace Parietaria!
Tanto per farsi ancor più ben volere, le foglie della parietaria son provviste di una peluria che le rende appiccicosissime sia sui tessuti che sulle mani!


Nemmeno i fiori della parietaria sono poi uno spettacolo! Infatti non sono appariscenti in quanto la pianta si affida al vento per l'impollinazione: il perigonio, la struttura che contiene gli apparati riproduttivi del fiore, è infatti chiuso a formare una spece di piccolo bottoncino tondo.


Quando il polline è pronto, il perigonio si apre di scatto; gli stami che conteneva sono piegati a C, e dispiegandosi di scatto al momento dell'apertura scagliano il polline che li riveste nell'aria, come una catapulta.
Anche per questo la parietaria sfrutta le superfici verticali come i muri: più in alto è situata la pianta e più probabilità ci sono che il polline copra grandi distanze cavalcando il vento. Questo stratagemma consente alla pianta di usufruire di questa agevolazione senza impiegare grandi risorse in un fusto alto ed eretto.
Qui però sta un'altra grossa fonte di contrasto fra la parietaria e gli umani a cui questa cerca di rubare il possesso delle mura di casa! Per essere più agevolmente portato dal vento, infatti, il polline della nostra terribile piantina è particolarmente minuscolo, sull'ordine di 15 micron di grandezza! Anche a causa di ciò esso crea in molte persone predisposte una forte reazione allergica, che si concretizza in congiuntiviti, riniti e persino forme asmatiche anche molto forti.
Non sempre la convinvenza fra l'uomo ed il mondo vegetale è facile! .. Ma per una volta tanto con la parietaria la parte sotto attacco siamo noi!

domenica 17 aprile 2011

Meloe violaceus

Mio padre e mia madre hanno sorpeso nel giardino della loro casa un bell'esemplare di Meloe violaceus.
Si tratta di un particolarissimo coleottero, con una corazza nera dai riflessi cangianti dal viola all'azzurro.


Il corpo di questo insetto è in genere lungo due o tre centimetri; di solito le femmine sono di dimensioni leggermente superiori ai maschi. 


L'addome è molto lungo e sviluppato e le elitre lo coprono solo in parte. Non ci sono ali - l'insetto è infatti attero.
Le antenne ci permettono di riconoscerne il sesso: se, come nell'esemplare della foto, sono piegate a ginocchio (genicolate), si tratta di un maschio; la femmina invece le ha diritte.


Questa fotografata in Slovenia l'altr'anno nei dintorni di Vitovlje, è infatti una femminuccia!
Dopo che la nostra bella coppia ha consumato il matrimonio, in primavera, la femmina scava un buco nel terreno di circa un paio di centimetri di profondità e vi depone qualche migliaio di uova!
Come tutti gli insetti della famiglia dei Meloidi anche il nostro ha un ciclo vitale molto particolare: sono infatti ipermetaboli, ossia hanno uno stadio larvale in più rispetto a quello degli altri 'normali' coleotteri (olometaboli).
Quando le uova si schiudono ne esce una piccola larva, chiamata 'triungulino'. Come dice il nome, ha delle grosse unghie e assomiglia ad un piccolo pidocchio. Queste piccole schifezzuole si arrampicano sui fiori - specialmente sui denti di leone. Dai fiori cercano di aggrapparsi all'ape domestica (Apis mellifera). L'ape viene usata per un passaggio a scrocco all'interno dell'alveare. Qui si rintana in una celletta e per prima cosa mangia le uova dell'ape lì depositate - il Meloe violeaceus infatti è uno dei tanti parassiti che vivono a spese della povera ape domestica. Dopo aver così banchettato si trasforma in una tozza larva vermiforme che continua a mangiare a sbafo il polline, il nettare ed il miele delle api dall'interno della cella. Dopo un ulteriore periodo si trasforma di nuovo in una pupa, e succesivamente con un ulteriore cambiamento diventa finalmente l'insetto adulto.

Un tempo agli insetti che in qualche modo ostacolavano o danneggiavano le attività agrarie dell'uomo veniva riservata l'etichetta di 'insetto dannoso'. Ovviamente il concetto di 'dannoso' è molto relativo! Spesso un elemento che danneggia una specie serve anche a contenerla - per esempio se non esistono predatori si può avere uno squilibrio nel numero delle prede. Così anche un parassita come il Meloe violaceus può rientrare, in un ottica più grande, parte di un equilibrio più esteso.
Quindi evitate di uccidere questo insetto a causa del suo ciclo vitale, e lasciate agli apicoltori la difesa dei loro alveari!

La piccola Muscari

La muscari (Muscari botryoides) è un altro di quei fiori minuscoli ma onnipresenti che colorano i prati nei mesi di marzo e aprile. 


Questa pianta, tanto piccola quanto elegante, fa parte della famiglia delle Liliacee/Hyacinthacee.
E' conosciuta anche con i nomi popolari di 'soldatini' o 'pentolini', anche se devo ammettere che non ci è chiarissimo il motivo di tali soprannomi...
Il nome Muscari viene dal latino 'muscus' ad indicare il profumo muschiato dell'infiorescenza; 'botryoides' invece in greco significa 'a forma di grappolo d'uva'; oltre che la forma anche il colore di questo bel fiorellino ricorda infatti un bel grappolo d'uva nera!
Un sinonimo (spesso le piante hanno ben più di un nome scientifico) di questa specie è 'Muscari neglectum', ad indicare l'aspetto poco vistoso del fiore. Si vede che chi ha scelto questo ingrato nome non possedeva una vista buona!
Guardando da vicino i singoli fiori della muscari ci accorgiamo infatti di quanto siano belli pur nelle loro minuscole dimensioni.

 I fiori superiori sono rivolti verso l'alto, ma sono sterili, essendo privi di stami e ovari - servono per lo più ad allettare gli insetti impollinatori. Quelli inferiori sono rivolti invece verso il basso e sono fertili. I petali sono fusi a formare un tubo a forma di palloncino; il bordo è sfumato sul bianco.

In questa foto si vedono anche gli stami che vanno a sfregarsi con l'insetto impollinatore che va a visitarli.

I fiori chiusi ricordano talmente tanto un acino d'uva che mio marito, dopo averli fotografati, ha provato ad assaggiarli! A suo dire dopo un primo impatto molto dolce subentra un schifosissimo acido-amarognolo, tanto che li ha subito sputacchiati via!
La muscari è una pianta perenne, dotata di un bulbo e di bulbilli con i quali si propaga. Le sue foglie sono lisce e lineari, più lunghe dello stelo del fiore.

I frutti sono capsule con tre valve che contengono semi molto striati. Alcune piantine di muscari hanno già iniziato a fruttificarle e abbiamo potuto fotografarne una con il frutto ieri all'Orto Botanico di Trieste.

I nonni ci insegnano che la muscari veniva un tempo raccolta in gran quantità per colorare le uova sode per la Pasqua. Bisogna fare attenzione a non usare il gambo o le parti verdi ma mettere solo l'infiorescenza nell'acqua con cui si bolle le uova, altrimenti si interferirebbe nella colorazione. Devo dire che ci abbiamo provato anche noi ma con scarsi risultati - un uovo appena tinto di una pallida ombra violacea. Forse ne abbiamo usato troppo pochi? Ad ogni modo per colorare le uova è meglio usare le cipolle rosse che non solo funzionano meglio, ma ci permettono di lasciare la muscari nei prati a cui appartiene!

sabato 9 aprile 2011

Il soffione

Uno dei fiori più comuni dalle nostre parti è il tarassaco (Taraxacum officinalis): lo si vede nei giardini, nelle vigne, in fianco alle strade, nei parchi, persino nelle aiuole spartitraffico lasciate a sè stesse!


Il tarassaco ha un'infinità di nomi comuni e nomi regionali. Il più conosciuto forse è dente di leone, nome che deriva dalla particolare forma dentellata delle foglie. In bisiacaria è conosciuto principalmente come 'radicela'. La pianta ha infatti una radice a fittone: il suo rizoma si prolunga infatti in profondità, per cui il tarassaco può vivere anche in luoghi aridi. In tal caso le sue foglie si dispongono a rosetta, facendo ombra al terreno sottostante per impedire che si secchi eccessivamente; la scanalatura delle foglie inoltre porta alla radice ogni singola goccia di pioggia che vi cade
Quando la pianta cresce invece in un prato le foglie perdono questa disposizione per elevarsi al fine di esser maggiormente esposte alla luce.


Le foglie della radicela, così come tutta la pianta, sono molto gradite dagli animali da pascolo e un tempo servivano anche per l'alimentazione umana; ho avuto la sventura di assaggiarle lesse e vi assicuro che è meglio darsi alle spinaci - sono mille volte più amare della più amara cicoria!
La pianta contiene un lattice bianco; probabilmente è a causa di questo che il tarassaco è sempre stato molto usato come pianta medicinale. Il nome stesso 'taraxacum' sembra derivare dal greco 'taraxis', 'guarisco'; c'è anche l'ipotesi che la fa derivare da un lemma persiano significante "erba amara": si sa, le medicine non sono mai dolci!

 Tarassaco nell'erba vicino alla chiesetta di Polazzo


Ad ogni modo il tarassaco ha effettivamente un'effice azione nel curare i disturbi digestivi; oltre a ciò è un potente diuretico, da cui deriva il nome bisiacco 'pissinlet'. Si raccontava infatti ai bambini che bastava toccarlo per bagnare di conseguenza le lenzuola del letto di notte! Senza dubbio, oltre all'efficacia come diuretico, agisce in questa credenza l'associazione simbolica col colore giallo, secondo i principi della magia simpatica popolare.


Il tarassaco fiorisce da marzo fino ai primi mesi dell'autunno. Il fiore ci rivela che il tarassaco appartiene alla famiglia delle Composite (o Asteracee, a seconda delle denominazioni). A differenza del fiore della pratolina, il fiore del tarassaco è composto esclusivamente di fiori ligulati, ossia composti da una singola linguetta.
Ognuno di quelle piccole linguette gialle, che possono sembrare il petalo d'un singolo fiore, sono infatti un fiore di per sè, e l'infiorescenza nel suo complesso è il capolino formato da queste.
Il capolino è protetto da delle brattee verdi che racchiudono in parte l'infiorescenza intera durante la notte e nelle giornate fredde e piovose.
I fiori a linguetta sono fatti come quelli del girasole, ma posseggono stami e pistillo ben sviluppati. Inoltre l'ovario si prolunga in un breve peduncoletto, che sostiene la corolla ed una corona di peli in cui si può riconoscere un calice trasformato. Questo calice singolare si chiama pappo. Quando il tarassaco sfiorisce, il pappo non cade ma rimane ancorato al frutto, provvedendo così a fornire un singolare mezzo di trasporto.



Gli acheni del tarassaco, semplici semi rivestiti da una buccia secca, sono collegati ai pappi che, coi loro sottilissimi fili, funzionano al tempo stesso come una vela ed un paracadute. Basta un piccolo soffio di vento per staccarli dal ricettacolo e portarli distante dalla pianta madre, permettendo così alla pianta di espandersi con efficacia in lungo e in largo, colonizzando sempre prati nuovi invece di restare ammassata come farebbe se i semi cadessero nelle immediate vicinanze.



Da qui viene un altro dei nomi del tarassaco, 'soffione': chi di noi non ha, almeno una volta nella vita, giocato a disperdere i semi di questo fiore con un vigoroso soffio?


Anche la buccia dell'achenio è costruta in maniera di fissarsi in maniera più efficace possibile al terreno: le escrescenze ad uncino le permettono di ancorarsi con efficacia al terreno, ed ogni ulteriore movimento la pianta più in profondità, permettendo al seme di ripararsi al sicuro nel terreno.


Oltre che per gli animali da pascolo il tarassaco è una leccornia anche per gli insetti! E' facile vedere camminare sull'infiorescenza delle formiche, molto probabilmente in visita a degli afidi; ma i visitatori più comuni sono bombi e farfalle. Nella foto qui sotto una bellissima farfalla sfinge (Macroglossum stellatarum) mentre attinge ai fiori in volo stanziale con la sua lunga spiritromba!


Un'ultima curiosità: dal fusto cavo del soffione si può trarre un piccolo strumento musicale! Basta schiacciarne un'estremità, come se fosse un'ancia, e soffiarvi dentro facendolo vibrare come un piccolo clarinetto!

giovedì 7 aprile 2011

Bello e pericoloso!

Con le giornate di sole di fine marzo esplode la fioritura del Favagello (Ranunculus ficaria). E' facile vederne sui bordi delle strade di campagna; sulla curva della strada di Doberdò, proprio vicino alla piazzetta dell'olmo di Selz, c'è un punto in cui i suoi fiori brillano in quantità con il loro radioso colore giallo.


I ranuncoli prediligono i luoghi umidi ed ombrosi: da qui ne viene infatti il nome, latinizzazione di un termine greco che significa ''rana'', noto abitante delle paludi. Anche le foglie assomigliano a quelle delle ninfee! Il nome della specie, "ficaria" viene invece da "ficus" per la forma del bulbo, che sembra somigli a un grosso fico.

Come tutte le Ranuncolacee anche il favagello ha appunto un bulbo; le foglie sono cuoriformi, carnose e lucide. Anche i fiori sono particolarmente lucidi, essendo ricoperti di una cera che li fa brillare come se fossero verniciati di fresco - cosa che li rende particolarmente difficili da fotografare se c'è il sole! Spesso sui piccioli si trovano dei ''bulbilli'', cioè piccoli bulbi che si staccano facilmente e, trasportati dall'acqua, consentono la disseminazione.



La devozione popolare spesso usava i ranuncoli per decorare gli altari dedicati alla Madonna, perchè una leggenda vuole che Gesù abbia trasformato le stelle del cielo in ranuncoli per onorare sua Madre.
Ciò nonostante l'intera famiglia delle Ranuncolacee è particolarmente pericoloso per la loro forte velenosità (ci appartiene anche l'elleboro). Il Ranunculus ficaria in particolare è pericoloso anche solo per contatto: basta toccarlo per riceverne un'irritazione simile ad un'ustione, con tanto di vescicolazione.
La ranuncolina in essi contenuta provoca poi, per ingestione, dolori intestinali, insufficenza respiratoria, crampi e tutta una serie di altri sintomi poco piacevoli che possono addirittura culminare con la morte. Il ranuncolo è pericoloso anche per gli animali al pascolo: se ingerito eccesivamente dai bovini ne rovina il latte rendendolo rossastro ed amaro (e, ovviamente, ben poco salutare!). Il veleno di questo fiore tuttavia perde efficacia se disseccato, e può quindi essere usato come componente del fieno per gli animali.
Una volta veniva usato per curar l'artriti: forse i forti arrossamenti da irritazione che provoca richiamavano il calore del fuoco che tanto bene fa per questi dolori, e si credeva che in maniera simile anche il veleno del fiore potesse servire. Non serve dire che è un rimedio da non provare assolutamente!


domenica 3 aprile 2011

Le pratoline

Nei prati dove l'erba è bassa, come quelli tenuti a pascolo, o rasati di frequente, fiorisce allegramente la pratolina (Bellis perennis), come tante piccole stelle bianche gettate a manciate nel prato verde.


La pratolina è il classico esempio di fiore della famiglia delle Asteracee, conosciute anche come Composite. 
La pratolina non è infatti un unico fiore, ma un insieme di fiori disposti in un capolino: la parte centrale è formata da dei fiori ermafroditi tubulosi gialli, mentre i ''petali'' bianchi, spesso striati di rosa acceso, sono in realtà altri fiori detti liguati.





Quello evidenziato nella foto di sinistra è un singolo fiore tubuloso! Anche le palline centrali sono singoli fiori, che non si sono ancora schiusi (per limitare l'autoimpollinazione).
Il capolino comunque si comporta tutto come se fosse un unico fiore, chiudendosi di notte o quando è buio, e orientandosi col sole, durante il giorno.
Il frutto è un semplice achenio, un piccolo frutto senza polpa.

La pratolina ha ottime proprietà astringenti e antinfiammatorie; le foglie sono usate per cataplasmi contro ecchimosi, contusioni o foruncoli, mentre i fiori sono leggermente lassativi, diuretici e stimolano la sudorazione, quindi sono usati come disintossicanti.
Le foglie possono essere usate anche per insalate o zuppe e i capolini si usano sott'aceto, anche se devo dire che non ho mai provato a farli!

Come suggerisce il nome di specie "perennis", questo bel fiore fiorisce praticamente tutto l'anno, ad eccezione dei periodi più freddi. Su "Bellis" le teorie sono discordanti: la più semplice e verosimile lo fa derivare da "bellus", che in latino significa bello - sembra più improbabile invece la derivazione da "bellum", guerra.
Una fantasiosa ma poetica etimologia invece la fa derivare da Bellide, una delle danaidi.
Bellide era una ninfa. Un giorno danzava con il suo fidanzato Efigeo, quando il Dio Vertumno si invaghì di lei. Efigeo lottò a lungo con il Dio ma perse e Bellide, per disperazione, si trasformò nella piccola e bella pratolina.
Bella anche l'etimologia del nome inglese della pratolina, "Daisy": deriverebbe da "day's eye", l'occhio del giorno, dato che col sorgere del sole i suoi capolini si aprono come degli occhi con delle lunghe ciglia bianche.




9/4/2011: un paio di foto aggiuntive!
Un pezzetto di prato costellato di pratoline:

Una pratolina particolarmente intinta di rosa:

Un cane ornato da una pratolina :)

domenica 20 marzo 2011

L'elleboro

Durante un giretto domenicale siamo passati per il paesino sloveno di Veliko Polje.  In quei paraggi abbiamo fatto una piccolo sosta per visitare una vecchia chiesa diroccata nel bosco, che si vedeva dalla strada.



Proprio nel bosco vicino alla chiesa abbiamo trovato un' altro bel fiore del sottobosco particolarmente preoce è l'elleboro (Helleborus multifidus).


Come la primula anche l'elleboro sfrutta il rizoma come riserva energetica per spuntare presto nel corso dell'ann.
L'infiorescienza è pendula ed è composta da cinque vistosi sepali verdi, che arrivano fino a 3-4 cm di dimensione.
Se lo si osserva da vicino è possibile vedere al centro di questi i petali, particolarmente piccoli, praticamente atrofizzati, in quantità variabile da 8 a 12. I petali fomano un cerchio attorno alle antere, che sono in gran numero (fino a cinquanta!), e gli stimmi (una decina).


Il nome Helleborus significa in greco "pasto velenoso": infatti questa piccola piantina è particolarmente velenosa! Contiene infatti tre sostanze molto tossiche: l'elleborina, l'elleboreina e l'acido aconitico. Le prime due non vengono distrutte con l'essicazione, quindi anche un fiore d'elleboro secco è velenoso - un motivo in più per ammirare il fiore lasciandolo lì dov'è, senza toccarlo.
Nella medicina popolare veniva usato come rimedio per la rogna, come vermifugi e come purgante; a causa dell'elevata tossicità però spesso e volentieri ci scappava il morto! L'elleboro può portare alla morte in pochi minuti con convulsioni, diarrea e delirio - davvero una fine poco desiderabile! 
Ciò dovrebbe mettere in guardia contro un'uso sconsiderato delle piante come medicazione fai da te: contrariamente a quel che tanti credono, non tutto ciò che è naturale è salutare ed innocuo!
Certo, un veleno nella dose giusta può anche essere un ottimo farmaco; ma la quantità di principio attivo contenuta in una pianta varia non solo dalla parte della pianta raccolta (foglie, radici, fiori, frutti) ma addirittura da esemplare ad esemplare: un fiore cresciuto in un ambiente secco potrebbe contenere il doppio di principio attivo rispetto ad un altro fiore della stessa specie cresciuto in un ambiente umido e piovoso.
Quindi per usufruire al meglio dei benefici della medicina naturale è sempre meglio affidarsi ai consigli di una persona esperta, evitando santoni, dicerie ed esperimenti fai da te!